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Negli ultimi dieci anni ben 5.541 italiani residenti nel Pordenonese si sono trasferiti all’estero

17 gennaio 2020

L’aumentata mobilità geografica sta modificando la nostra percezione del "lontano"


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Le ragioni per cui gli italiani vanno all’estero
(dati elaborati da Paolo Tomasin)

48% ragioni legate al mercato del lavoro
33% ragioni personali o preferenze professionali
13% i datori di lavoro stranieri si sono mossi prima
 
 
 
 
 
 
Come il famoso ritornello cantato dalla band inglese The Clash quasi quarant’anni fa, Should I stay or should I go?, oggi molti giovani (e non solo) pordenonesi si chiedono se valga la pena rimanere a vivere in questo Paese o espatriare.
Dai dati anagrafici risulta che, negli ultimi dieci anni, ben 5.541 cittadini italiani residenti nel territorio della destra Tagliamento, alla domanda abbiano già risposto andandosene all’estero.
Ma il dato è sicuramente sottostimato, perché non tiene conto di quanti si sono trasferiti senza dichiarare il cambio di residenza anagrafica (nonostante sia obbligatorio).
 
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Il quesito - se restare o partire - ha sicuramente arrovellato molti nonni e bisnonni di quanti se lo pongono oggi. E continuano a porselo tanti cittadini di Paesi in guerra e/o colpiti da calamità naturali e/o da profonde difficoltà economiche (le ultime statistiche UNHCR parlano di 70,8 milioni di persone nel mondo in fuga dalla propria abitazione).

Eppure, per la gran parte dei giovani pordenonesi che hanno già scelto di andare a vivere all’estero, sembra che la domanda vada in parte riformulata. "Restare" o "partire" non appare una vera alternativa, anche perché i due termini hanno assunto altri significati rispetto a quelli di un tempo.
La generazione Erasmus, come vengono etichettati gli studenti universitari che trascorrono un periodo di studio in un altro Stato europeo, ha allargato i confini di ciò che comunemente consideriamo Patria.
 
Lo studio all’estero per alcuni si è trasformato nel tempo in un posto di lavoro, nella costruzione di una famiglia, di nuova cittadinanza. Così si sentono sempre più cittadini comunitari o del mondo coloro che, ancor più giovani, durante le scuole superiori, frequentano dei cicli di lezione all’estero.
 
Altri ancora inseguendo un posto di lavoro, presso imprese multinazionali, università straniere o agenzie internazionali, si considerano inevitabilmente parte del pervasivo processo di globalizzazione che ha investito tutto e tutti.
L’aumentata mobilità geografica, la riduzione dei tempi e dei costi dei viaggi, l’accresciuta possibilità di rimanere comunque connessi con la propria famiglia e i propri cari attraverso i dispositivi digitali stanno indubbiamente modificando la nostra percezione di ciò che continua ad essere identificato come lontano, estero, espatrio.
Forse c’era maggior distanza socioculturale tra un siciliano che negli anni cinquanta raggiungeva Torino per lavorare alla FIAT che quella di un pordenonese che oggi parte per occupare un posto di lavoro (anche modesto) a Londra o a Berlino.
 
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Questi giovani - che alcuni chiamano la "miglior gioventù" per distinguerli nettamente da bamboccioni, sdraiati, choosy - partono e si stabiliscono in luoghi diversi da quelli in cui sono nati e cresciuti nei primi anni di vita per investire (non senza difficoltà) in un altro futuro.
 
Partecipano così alla costruzione di un mondo più connesso, culturalmente aperto, in cui la terra è la casa comune di tutti gli abitanti del pianeta, facendo propria la frase di Dante: "a noi che è patria il mondo come ai pesci il mare".

Non chiediamoci dunque se e quando questi giovani ritorneranno, non calcoliamo, solo dal punto di vista economico, quanto l’Italia ha speso nel formarli e crescerli. Valutiamo piuttosto se e quanto contribuiscono alla costruzione di un mondo migliore, al di là dei ristretti confini di un singolo Paese d’origine.
 
 
 
 
  Paolo Tomasin